Le immissioni vietate ex art. 844 cc in condominio

Oltre alle norme codicistiche proprie della materia condominiale (trattasi degli artt. artt. 1117-1129 c.c.), non si deve dimenticare che vi sono altre norme, dello stesso codice o di altre leggi, che incidono sui rapporti che riguardano sia i condomini che l’amministratore del condominio. Rilevano, in particolare, gli articoli del codice civile inerenti al diritto di proprietà, e alle limitazioni nel suo godimento, oltre al diritto alla salute, entrambi costituzionalmente garantiti: questo è quanto ha puntualizzato la Corte di Cassazione, sez. II, con una recente sentenza del 3 settembre 2018, n. 21554.

La proprietà, infatti, come disciplinata dall’art. 832 c.c. e dall’art. 42 Costituzione, ha una funzione sociale e consente al suo titolare il pieno ed esclusivo godimento del bene, potendone anche disporre, per esempio per venderlo o mutarne l’uso, in quanto su di esso non può sussistere altro potere di goderne e disporre in modo autonomo; del pari tale prerogativa può subire restrizioni per il soddisfacimento di un interesse pubblico, così come per il contemperamento di interessi privati.

Ebbene, tra i divieti che si possono rinvenire nel codice civile vi è quello inerente alle immissioni disposto dall’art. 844 c.c.: questo articolo vieta le immissioni di rumori, fumi e odori provenienti da terzi, compresi, in uno stabile condominiale, i medesimi condomini, qualora superino la normale tollerabilità.

Ove dovesse nascere una controversia in materia, la competenza ricade sul Giudice di Pace, purché la vertenza coinvolga soltanto i privati (pertanto ove l’immissione provenga da un immobile nel quale si svolge una attività produttiva, la competenza per materia è del Tribunale, come sancito in una recente sentenza della Cassazione, sez. VI, del 28 settembre 2017, n. 22730).

Ed ancora, considerato che l’art. 844 c.c. si applica anche agli edifici in condominio, pur vagliando la peculiarità dei rapporti condominiali, se la normale tollerabilità sia quantificata in una clausola contrattuale di un regolamento condominiale, il giudice non può estendere la sua valutazione anche a questa; ciò nonostante, una delibera condominiale che risulti lesiva, del diritto di cui trattasi, anche di un solo condomino deve considerarsi nulla ai sensi dell’art. 1418 cod. civ.

Quando parliamo pertanto di condomino, il soggetto legittimato attivo ad instaurare una controversia è:

– l’amministratore nel caso in cui le immissioni riguardino le parti comuni dello stabile;

– negli altri casi (ad es. rumori provenienti da un locale pubblico) legittimati attivi sono i singoli condomini danneggiati.

Per la valutazione del superamento del limite di tollerabilità, il giudice di merito deve utilizzare il suo prudente apprezzamento: deve rapportarsi alla particolare situazione ambientale, sottoposta al suo esame, nel rispetto dei criteri fissati dalla normativa civilistica (cfr. Cass. civ. sez. II, 20 gennaio 2017, n. 1606; Cass. civ. sez. II, 29 ottobre 2015, n. 22105). Del resto, quando parliamo di limite di tollerabilità delle immissioni, questo non può essere assoluto e, conseguentemente, ha una componente variabile in relazione sia alle caratteristiche della zona, che delle abitudini e stili di vita condotti: ne deriva che compete al giudice del merito accertare in concreto, e con metodi oggettivi, il superamento della normale tollerabilità e il successivo suo provvedimento non è censurabile in cassazione (a titolo esemplificativo non può essere considerata tale, in violazione dell’articolo in esame, il superamento della normale tollerabilità, qualora il disturbo si manifesti occasionalmente durante una festa protrattasi per poche ore serali per soddisfare esigenze di svago collettivo).

Alla luce di quanto sopra dedotto, si deve osservare che il nostro ordinamento prevede a favore di colui che è danneggiato dalle immissioni di rumori, fumi e odori due differenti azioni:

1) l’azione inibitoria, finalizzata ad evitare il perpetrarsi delle immissioni. In tal caso compete al giudice del merito stabilire i rimedi necessari atti ad eliminare il disagio o, comunque, a ricondurre lo stesso ad un grado di normale tollerabilità;

2) l’azione risarcitoria, che ha lo scopo di liquidare il danno patito. Qui, il giudice può liquidare una somma che possa prevedere anche il risarcimento per lucro cessante (Cass. civ. sez. II, 18 maggio 2015, n. 10169).

Rilevante ricordare altresì che l’azione inibitoria – in quanto fondata sulla responsabilità ex art. 2043 c.c. – può essere radicata congiuntamente a quella richiedente il risarcimento del danno in forma specifica come disposto dall’art. 2058 cod. civ.

Tornando quindi alla evoluzione del diritto di proprietà, va evidenziato che qualora venisse violato questo diritto assoluto, il danneggiato può conseguire un risarcimento del danno non patrimoniale, provocato da immissioni vietate, anche in assenza di un danno biologico documentato, purché sia impedito il normale svolgersi della vita quotidiana nella propria abitazione: è quanto stabilito dalle Sezioni Unite della Suprema corte con la pronuncia n. 2611 del 1° febbraio 2017.

Il giudicante deve considerare prevalente l’aspetto della tutela della salute in rapporto alla tutela della proprietà quando ricorrano tre condizioni: a) l’interesse leso abbia rilevanza costituzionale; b) la lesione dell’interesse sia grave; c) il danno non sia futile.

Ne deriva che la liquidazione del danno è indipendente dal contemperamento di interessi contrastanti, per esempio quello del residente e quello del ristoratore domiciliati nell’identico immobile, ma deve considerarsi soltanto l’oggettiva illiceità del fatto che ha prodotto il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 cod. civ.

È proprio su questa strada che si è immessa la Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 21554 del 16 febbraio / 3 settembre 2018, stabilendo che:

1) il danno alla salute non può ritenersi sussistere in re ipsa, ma deve essere provato, anche per presunzioni;

2) per il risarcimento di un danno non patrimoniale deve verificarsi esclusivamente l’illiceità del fatto che l’ha generato, senza dover considerare l’eventuale contemperamento dei reciproci interessi.

 

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