Figlio maggiorenne con contratto a tempo determinato: confermato il contributo al suo mantenimento

Quando nell’ambito di un procedimento familiare (separazione personale / scioglimento del matrimonio) si affronta il tema del contributo per il mantenimento dei figli, sovente viene chiesto al professionista quale sia il momento estintivo di tale obbligazione.

Sebbene in estrema sintesi, il principio che regola la materia è il seguente “i genitori sono tenuti al mantenimento del figlio, anche se maggiorenne, che non abbia ancora raggiunto l’autosufficienza economica”, quanto in esame ha un sempre più attuale riscontro applicativo poiché legato, evidentemente, alle difficoltà che oggi i figli, benché maggiorenni e muniti di diploma e/o laurea, incontrano rispetto all’inserimento nel mondo del lavoro, nonché all’abituale ricorso da parte di aziende e datori a stage, tirocini, apprendistato e contratti a termine.

Ne deriva che sulla determinazione del concetto di autosufficienza economica influiscono una serie di fattori al vaglio, caso per caso, dei giudici e delle Corti.

Orbene, con una recente pronuncia (ordinanza n. 19077/2020), la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sul punto, si è nettamente allineata con l’orientamento assunto dalla Corte di Appello, la quale aveva determinato il contributo paterno per la figlia in €. 300,00=, ancorché avviata al lavoro con contratto a termine e a tempo parziale, rigettando così il ricorso presentato dal genitore.

Il ragionamento seguito dagli Ermellini è nato dal connubio di due principi fondamentali ai quale devono ispirarsi i provvedimenti riguardanti i figli da assumersi in sede di separazione personale o divorzio dei coniugi:

in primis la necessità di perseguire l’esclusivo interesse morale e materiali dei figli stessi;

– in secondo luogo, che i figli hanno il diritto di mantenere un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia e, per quanto possibile, lo stesso tenore di cui avrebbero goduto se i genitori non si fossero separati.

In quest’ottica, se la precaria situazione lavorativa del figlio non gli consente di emanciparsi del tutto dalla famiglia di origine e di mantenersi autonomamente, i genitori sono chiamati a provvedere per colmare il cd. gap.

Nel caso di specie, poi, la Cassazione ha avvalorato quanto stabilito all’esito del giudizio di appello e ciò poiché la Corte territoriale aveva esaminato i fatti allegati dal ricorrente, a sostegno della richiesta di revoca del contributo, e aveva ritenuto, alla luce delle risultanze istruttorie (buste paga, residenza anagrafica della figlia presso la casa materna, natura e compenso del rapporto lavorativo documentato e cessazione del rapporto contrattuale precedente), che la figlia non avesse raggiunto in pieno l’autonomia economica, ribadendo quindi il suo diritto a mantenere un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia e, per quanto possibile, analogo a quello goduto in precedenza.

In buona sostanza la Suprema Corte ha stabilito che non può dirsi raggiunta l’indipendenza economica quando gli impieghi del figlio non abbiano carattere di stabilità, circostanza che tipicamente si verifica con i contratti a tempo determinato.

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