Concorrenza sleale ed Enti Pubblici

Non costituisce, di per sé, concorrenza sleale l’assunzione, da parte di un Comune, di un servizio non incluso tra quelli che, a norma di legge, devono essere gestiti dagli enti locali territoriali.

Infatti gli eventuali limiti posti dalla legge in proposito rispondono ad esigenze pubblicistiche e non costituiscono posizioni di diritto soggettivo in capo agli imprenditori privati.

Tuttavia, la vendita sottocosto (c.d. dumping) è contraria ai doveri di correttezza di cui all’art. 2598 c.c., quando effettuata da un impresa in posizione di dominio o comunque privilegiata, con la finalità di frapporre barriere all’ingresso di altri concorrenti sul mercato o eliminare i propri concorrenti per poi rialzare i prezzi, approfittando della situazione di monopolio così venutasi a determinare.

La possibilità di configurare come atto di concorrenza sleale la vendita sottocosto da parte di un ente pubblico è ravvisabile allorché il Comune pratichi una tariffa non remunerativa.

Al riguardo si riporta una sentenza ormai storica delle Sezioni Unite della Cassazione.

SENTENZA Cass. civ. Sez. Unite, 22-05-1991, n. 5787

sul ricorso iscritto il primo al n. 2028/85 del R.G. AA.CC. proposto da

RRVV, tutti elettivamente domiciliati in Roma, presso la Cancelleria della Corte Suprema di Cassazione, rappresentati e difesi dall’Avv.to NMS, giusta delega a margine del ricorso.

Ricorrenti

contro

COMUNE DI BOLOGNA.

Intimato

e sul secondo ricorso iscritto al n. 2896/85 del R.G. AA.CC. proposto da

COMUNE DI BOLOGNA, in persona del Sindaco in carica, elettivamente domiciliato in Roma, Via Orti della Farnesina n. 126, presso lo studio dell’Avv.to GSR, che lo rappresenta e difende unitamente all’Avv.to AF, giusta delega in calce al controricorso e ricorso incidentale.

Controricorrente e ricorrente incidentale

contro

IIVV

Intimati

Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna dep. il 31.7.84.

Udita nella Pubblica Udienza, tenutasi il giorno 30.11.89, la relazione delle cause, svolte dal Cons. Rel. Dr. Vercellone.

Uditi gli Avv.ti.

Udito il P.M., nella persona del Dr. EA, Avv.to Gen.le, presso la Corte Suprema di Cassazione, che ha concluso chiedendo il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo

Un gruppo di sette imprese di onoranze funebri (d’ora innanzi indicato come M ed altri) hanno citato il Comune di Bologna dinanzi al Tribunale di quella città, asserendo che il Comune aveva compiuto atti di concorrenza sleale nei loro confronti per il fatto in sé, e per la modalità che l’avevano accompagnato, dell’esercizio di una propria attività di onoranze funebri.

Il Tribunale riteneva che potevano ritenersi atti di concorrenza sleale l’uso nel materiale pubblicitario del Comune di una frase nella quale erano riscontrabili gli estremi della pubblicità menzognera e della denigrazione ed il fatto che i vigili urbani avessero in una occasione rimasta isolata (1.11.1974) impedito ai soli dipendenti delle imprese private la distribuzione di volantini pubblicitari. Escludeva che potessero ritenersi illeciti ex art. 2598 cod. civ. tutti gli altri atti e comportamenti addebitati dalle imprese attrici all’ente convenuto.

La Corte di appello di Bologna investita di impugnazione principale (M ed altri) ed incidentale (Comune di Bologna), respingeva il primo ed accoglieva in parte il secondo, escludendo che la frase pubblicitaria usata dal Comune fosse denigratoria e comunque ingannevole.

I giudici del secondo grado sostenevano la loro pronuncia con le seguenti argomentazioni:

a) Non è concorrenza sleale il fatto in sé che un ente pubblico, in specie i Comune, eserciti una attività imprenditoriale (qui la gestione di onoranze funebri) (1) nella economia di mercato e prima di tutto nella disciplina giuridica della impresa la nozione di impresa pubblica che ha per oggetto una attività commerciale.

Certo, questa deve seguire le regole concorrenziali, ma se non sono compiuti specifici atti ex art. 2598 cod. civ. gli altri imprenditori non hanno di che dolersi del fatto obiettivo, ad esempio, che i cittadini si servano più volentieri della impresa comunale per l’immagine che essa presenta appunto perché associata al Comune.

b) Non è vero che automaticamente si abbia comportamento di concorrenza sleale da parte dell’imprenditore che nell’esercizio della sua impresa violi norme di diritto pubblico. Perché la violazione di norme pubblicistiche integri gli estremi della concorrenza sleale è indispensabile che la condotta costituisca un elemento di una più complessa attività di concorrenza illecita la quale, attraverso un malizioso ed artificiale squilibrio delle condizioni di mercato, si rifletta direttamente sulla sfera patrimoniale del concorrente, danneggiandone l’azienda.

c) Comunque già il T.A.R. Bologna, investito di ricorso dalle stesse imprese concorrenti, ha ritenuto legittima la deliberazione consiliare del Comune con la quale fu assunta la gestione del servizio di pompe funebri in concorrenza con le imprese private in quanto tale gestione va ricondotta e compresa nell’ambito del servizio obbligatorio previsto dall’art. 91 lett. C n. 11 del T.U. legge comunale e provinciale 3 marzo 1934 n. 343 e successive modificazioni.

d) La frase pubblicitaria usata dal Comune: “L’agenzia comunale non è una impresa commerciale e non fa speculazione. E’ un servizio pubblico istituito dal Comune per tutelare gli interessi dei cittadini” non è denigratoria né ingannevole. Non è denigratoria perché l’intento speculativo è normale nell’imprenditore privato e non rappresenta alcunché di riprovevole alla coscienza critica e morale del pubblico dei consumatori. Non è ingannevole perché e risaputo che di regola gli enti pubblici quando esercitano un’attività commerciale organizzata non si propongono intenti speculativi ma finalità sociali di carattere pubblico. D’altronde proprio in questo senso era la deliberazione consiliare che aveva dato l’avvio a questa attività d’impresa, tale perché economica (idonea a coprire i costi di produzione mediante i proventi dei beni e dei servizi prodotti), per garantire un reale contenimento dei prezzi e soddisfare una precisa istanza sociale; anche perché i trasporti e le pompe funebri rientrano nella categoria dei “servizi pubblici a domanda individuale” di cui al decreto 31 dicembre 1983 del Ministero degli interni ai sensi e per gli effetti dalla legge 26 aprile 1983 n. 131.

e) Era invece atto di concorrenza sleale l’episodio di repressione della distribuzione di volantini pubblicitari disciminatoriamente operata nei confronti delle sole imprese private. Si trattava di episodio rimasto unico, tuttavia illecito e potenzialmente idoneo a cagionare danni.

La sentenza è impugnata per Cassazione da M ed altri: il ricorso è articolato su due motivi.

Resiste il Comune con controricorso e propone un unico motivo di ricorso incidentale.

Motivi della decisione

I ricorrenti si dolgono col primo motivo che la Corte non ha inteso le loro doglianze nel loro vero senso: ciò avrebbe determinato una omessa motivazione su punto controverso.

In realtà essi – così si afferma nel ricorso – si lamentavano essenzialmente del fatto che il Comune, nell’esercizio di quella attività, avrebbe utilizzato indistintamente tutti i mezzi pubblici della municipalità quali mezzi aziendali della agenzia di onoranze pubbliche e coperto il dumping dei prezzi sottoposto proprio ricorrendo all’unico bilancio, in funzione di una attività nient’affatto sociale perché volta a soddisfare esigenze di natura superflua, come sono le forniture sofisticate e lussuose che spesso vengono offerte e fatte a clienti esigenti. Il Comune sfrutterebbe una posizione dominante pubblica assicuratagli dalla indistinta utilizzazione dell’intera struttura pubblica municipale, unitariamente operante, con bilancio e regolamento indistintamente unificati, tanto in legale monopolio per il pubblico servizio dei trasporti funebri quanto in illegale concorrenza per la privata fornitura di onoranze.

La Corte non avrebbe inoltre compreso che si trattava di una invasione non consentita perché non espressamente sancita dalla legge in un’area che invece è riservata alla libera iniziativa degli imprenditori privati, questa costituzionalità privilegiata ex art. 41 Costituzione.

Ancora, la Corte di merito investita, dalla pronuncia delle sezioni unite della Cassazione che aveva pronunciato a suo tempo in sede di ricorso preventivo di giurisdizione, del diritto-dovere di pronunciare, avrebbe dovuto tener conto delle richieste contenute nella replica alla conclusionale in appello che tendevano ad una pronuncia che disapplicasse perché illegittimo il decreto del Ministero degli interni 31 dicembre 1983.

Tale motivo è infondato.

Non è esatto che la Corte di merito non abbia pronunciato sui temi proposti dalle appellanti imprese.

La Corte di Bologna infatti ha esaminato in primo luogo i singoli episodi denunciati; per uno confermando, per l’altro escludendo la denunciata natura di atti di concorrenza sleale.

Ha poi affrontato il tema della pretesa illeceità in sé dell’assunzione del servizio di pompe funebri, illeceità che si dedurrebbe dalla non inclusione di tale servizio nella categoria di quelli previsti nell’art. 1 del Testo unico sull’assunzione dei pubblici servizi da parte dei Comuni e delle Provincie (R.D. 15 ottobre 1925 n. 2578).

Sul punto ha affermato l’irrilevanza della eventuale illegittimità amministrativa della decisione consiliare affermando che, per quanto riguarda la valutazione di un comportamento imprenditoriale che si assume di concorrenza sleale, non è determinante il fatto in sé che l’attività di concorrenza si esplichi in (o sia resa possibile dalla) violazione di norme pubblicistiche. Ha negato cioé, per il caso specifico, che la qualifica di sleale potesse collegarsi alla circostanza di per sé che la concreta attività di esercizio delle pompe funebri non rientrasse nei compiti che la legge prevede tra quelli assumibili dal Comune. Questa affermazione della Corte di Appello è corretta e condivisa da questo Supremo Collegio, in conformità ala giurisprudenza di legittimità ed alla dottrina dominante (cfr. Sez. unite sent.

582/1976). I limiti imposti dalla legge ad altri fini e con altri scopi (nel caso quelli di evitare che gli enti pubblici territoriali si addossino, con aggravio della pubblica spesa, servizi che esorbitino da quelli normalmente ritenuti di pubblica utilità) non riescono a costituire pretese di diritto soggettivo in capo a imprenditori privati all’estensione da condotte che esulino da quei limiti. Salvo che, appunto, queste condotte costituiscano elemento di una più complessa attività di concorrenza che riesca, per le modalità e per gli scopi, a turbare le condizioni di mercato danneggiando le altrui aziende.

Essendo la motivazione della decisione impugnata sul punto fondata sulla ricordata affermazione diventa del tutto irrilevante l’argomento portato dai giudici di merito ad ulteriore sostegno: non potere cioé il giudice ordinario esaminare l’eventuale vizio di legittimità degli atti amministrativi che hanno reso possibile l’esercizio dell’attività di esercizio di pompe funebri ed essere già stato respinto dal T.A.R. Emilia il ricorso proposto dai ricorrenti contro la deliberazione consiliare 20 dicembre 1972.

Infatti, l’avere escluso che l’eventuale illegittimità degli atti amministrativi (delibera consiliare e decreto ministeriale 31 dicembre 1985 che introduce le pompe funebri tra le categorie dei servizi pubblici a domande individuali) possa di per sé qualificare come comportamento di illecita concorrenza l’esercizio delle pompe funebri, ha come conseguenza inevitabile l’inutilità dell’accertamento della legittimità od illegittimità di tali atti.

La Corte di merito ha infine negato che l’attività comunale fosse in concreto tale da turbare le condizioni di mercato danneggiando le aziende dei ricorrenti. L’affermazione dei giudici bolognesi si fonda essenzialmente sul riconoscimento della obbiettiva economicità di quella attività, quale idoneità astratta a procurare un lucro.

Su questo punto insorgono i ricorrenti secondo i quali il turbamento del mercato deriverebbe dal fatto che il Comune potrebbe offrire i servizi a prezzo così basso da impedire la sopravvivenza sul mercato di essi imprenditori privati, la cui attività deve poter portare loro un profitto. Affermando infatti i ricorrenti, come si è accennato, che il Comune eserciterebbe sostanzialmente una attività di dumping resa possibile dall’usto indistinto di tutti i mezzi pubblici della municipalità e dal ricorso all’unico bilancio comunale.

Ma ritiene questa Corte che anche tale doglianza non sia fondata, pur rendendosi necessarie alcune precisazioni.

Si può infatti ammettere in tesi che l’obbligo di attenersi a criteri di economicità riguardi ogni ente pubblico che gestisca attività “di natura squisitamente commerciale” (formula usata nella sent. 25.11.1977 n. 5132 pronunciata tra le stesse parti in sede di regolamento preventivo di giurisdizione).

Se ne può dedurre come logico corollario che sia da ritenere di concorrenza sleale l’attività dell’ente pubblico che gestendo una attività in regime di concorrenza ricorra alla politica di praticare prezzi insostenibili dagli imprenditori privati in quanto non obiettivamente economici.

Non è nemmeno da escludere, come è pur sostenuto da più recente dottrina, che sia atto di concorrenza sleale il fatto in sé della vendita (od offerta di servizi) a prezzi non remunerativi indipendentemente dal fine perseguito, in quanto comunque avrebbe come risultato obiettivo quello di alterare il funzionamento del meccanismo concorrenziale con pregiudizio degli interessi dei concorrenti.

Ma per escludere che, nel caso concreto, nemmeno sotto questo aspetto possa configurarsi un comportamento di concorrenza sleale, è sufficiente rilevare che i ricorrenti mai hanno prospettato (né dedotto e ovviamente tanto meno provato) che il Comune di Bologna abbia praticato o pratichi tariffe sottocosto e nemmeno così ridotte da escludere ogni profitto.

Ora, come è logico, pur se si dovesse qualificare di sleale la vendita sotto costo praticata da un ente pubblico (non economico ma svolgente attività di impresa) proprio per impedire che l’accesso privilegiato a fonti di finanziamento pubblico (il bilancio complessivo del Comune) snaturi il meccanismo selettivo del mercato, tale qualifica va esclusa quando obiettivamente non sussiste, non è denunciata, non è provata, la pratica appunto della tariffa non remunerativa: in assenza della quale non può sorgere alcun problema di alterazione del meccanismo concorrenziale.

Il secondo motivo del ricorso principale e quello unico del ricorso incidentale, investono la decisione in punto spese. M e gli altri si dolgono della parziale compensazione e della esclusione della ricorrenza della ipotesi di straordinaria importanza della causa per le questioni giuridiche trattate: il Comune di Bologna contesta l’esattezza della compensazione per quattro quinti.

Ambedue sono da respingere. La ripartizione dell’onere delle spese processuali è rimessa alla discrezionale valutazione del giudice di merito, come da giurisprudenza consolidata di questa Corte, sia per quanto riguarda la compensazione in sé sia per le quote di compensazione.

E’ necessario soltanto che sia rispettato, come nel caso è stato rispettato, il principio per cui il carico delle spese non può gravare sulla parte risultata totalmente vittoriosa. Né in senso contrario persuadono le osservazioni contenute nel ricorso incidentale del Comune di Bologna. Questo, nel suo appello, ha chiesto che in riforma della sentenza del Tribunale di Bologna, si dovessero “respingere siccome infondate le domande tutte proposte contro il Comune di Bologna”. Correttamente dunque la Corte di Appello ha deciso come se l’appello incidentale riguardasse anche il secondo degli episodi lamentati dagli attuali ricorrenti principali, pur se nei motivi di appello non fosse evidenziabile alcuna specifica censura: e dunque, correttamente ha provveduto nel senso di una parziale compensazione delle spese.

Discrezionalità, e dunque valutazione non suscettibile di controllo in questa sede di legittimità, deve altresì riconoscersi nella decisione se le questioni fossero o no di straordinaria importanza sì da giustificare l’aumento fino al doppio di cui all’art. 5 c. 2 della tariffa del 1985. Si tratta in sostanza dello stesso genere di valutazione che induce il giudice a determinare l’onorario tra il minimo ed il massimo di quanto previsto nella tariffa, valutazione che questa Corte (sent. 515 del 29 gennaio 1985) ha già affermato costituire esercizio di potere discrezionale da parte del giudice del merito per la quale non è necessaria specifica motivazione.

La soccombenza in questa fase del giudizio è essenzialmente dei ricorrenti. Costoro dunque debbono rimborsare con obbligo solidale le spese sostenute dal controricorrente Comune di Bologna, spese liquidate in L. 3.068.700 di cui 3.000.000 per onorari.

P.Q.M.

La Corte, riunisce i ricorsi e li rigetta entrambi. Condanna i ricorrenti principali, in solido, al rimborso delle spese a favore del controricorrente, spese liquidate in L. 3.068.700 di cui 3.000.000 per onorari.

Roma, 30 novembre 1989.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 22 MAGGIO 1991

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